Storie e misteri della Vallesina medievale

Tra le iniziative per la XXV edizione del Palio di San Floriano, che ha coinvolto una ventina di comuni della Vallesina, il 5 maggio è stato inserito anche il Convegno storico “Miti e storie della Vallesina medievale”, organizzato a Palazzo Bisaccioni in collaborazione con Quaderni Storici Esini e Italia Nostra.

Il moderatore dell’evento, Giancarlo Catani, consigliere dell’Ente Palio San Floriano, ha ricordato che «…la festa si svolse dal 1194 fino al 1808, quando venne soppresso il Contado. Poi il Palio è risorto nel 1994 grazie a don Mario Bagnacavalli e allo sforzo dei volontari». Ad aprire il convegno la prof.ssa Maria Cristina Zanotti, appassionata studiosa che ha avuto il merito di riscoprire e valorizzare con i suoi libri le chiese di S. Bernardo, S. Marco, S. Francesco al Monte e S. Pietro. Su quest’ultima, appartenente alla parte più antica e suggestiva della città, si è incentrata la sua relazione dal titolo “La contrada Valle a Jesi: il quartiere dei misteri”. Si tratta di un’area che costituiva il polmone verde della città, dove è ben conservata la parte medievale, tanto che gli esperti possono leggervi la storia di Jesi metro per metro. Intorno al Duecento la cinta muraria si restrinse molto e la parte abitata si ridusse all’acropoli, mentre la zona della valle, a sfondo agricolo, era spopolata e religiosamente ben rappresentata da S. Antonio Abate, il cui compagno iconografico, un maialino di cinta senese, è visibile nell’affresco del 1500 sotto la chiesa di S. Pietro.

La facciata della chiesa di S. Pietro

Il fondatore del monachesimo cristiano, S. Antonio Abate, curava infatti le malattie più ripugnanti con il grasso di maiale. La cosiddetta Porta Cicerchia, posta ad Est presso il torrione orientale, anticamente fu nota anche con il nome di Porta di S. Antonio o di S. Domenico, in quanto adiacente al notevolmente ampio complesso di S. Domenico, sorto sull’insediamento antoniniano: comprendeva una chiesa, un convento ed un ospedale, che dava ricovero anche a persone in buona salute. In seguito, il complesso antoniniano, in rovina, fu dato ai domenicani, che grazie alla loro enorme quantità di beni, riuscirono a ristrutturarlo. Appartenevano a loro anche gli Orti Pace, che misero a disposizione dei più bisognosi, aiutando con forniture alimentari i francescani, i cappuccini ed altri ordini religiosi meno importanti.

A proposito della chiesa di S. Pietro, la studiosa ha ipotizzato che sotto di essa i legionari romani possano avervi precedentemente edificato un tempio per la dea Atena. L’origine dell’antica pieve di S. Pietro, invece, sarebbe legata ai Longobardi, presenti sul territorio all’inizio dell’VIII sec. d.C. Questo popolo, infatti, tradizionalmente aveva la consuetudine di aumentare notevolmente il numero delle abbazie e delle chiese, così da svolgere anche il ruolo di longa manus dei Duchi di Spoleto e Benevento, che vi inviavano molti membri delle loro famiglie. La natura guerriera dei Longobardi traspare dagli agionimi di diverse chiese della Vallesina, dedicate a S. Michele, S. Angelo, ma anche a S. Giorgio e S. Martino di Tours. L’orientamento della chiesa di S. Pietro all’epoca era diverso, perché l’abside sembra coincidere con quella che è oggi la Cappella della Madonna della Misericordia, mentre il presunto ingresso originario era rivolto ad Est, su via Baldassini, anziché a Sud.

I due archi ogivali visibili sul muro della chiesa e murati per problemi di staticità probabilmente già poco dopo la loro costruzione.

Chi volesse approfondire la conoscenza dei segreti della chiesa di S. Pietro, potrà partecipare allo spettacolo organizzato all’interno della stessa il 9 giugno: una drammatizzazione, con musica e visita ai sotterranei, del diario di Don Cristoforo Agostinelli, che, nel giugno del 1746, descrisse sconcertato le deplorevoli condizioni in cui si trovava la struttura al momento del suo insediamento come nuovo parroco. L’umidità e i topi infestavano terribilmente persino la credenza dove erano riposti i paramenti sacri, i calici e le ostie. Il sacerdote, alla ricerca di denaro per la ricostruzione, prima di rivolgersi, con successo, ai cittadini più pii e devoti, tentò invano la fortuna giocando un terno al Lotto sulla ruota di Roma. Successivamente il dott. Gianni Barchi ha presentato il contenuto del suo libro Agosto 1294, dove ripercorre un episodio bellico che vide, presso Castelplanio, l’assalto dell’esercito jesino al monastero camaldolese di S. Benedetto de’ Frondigliosi, di cui era priore Don Simone da Cingoli. Lo storico Annibaldi riassunse gli atti processuali, rivelando che il comune di Jesi dovette comparire, per imputazioni serie, davanti al vicerettore della Marca, il francese Guillame Durand. Era successo che Don Simone, inquisito per le accuse di adulterio, eresia, dilapidazione di beni e spergiuro, era stato convocato in tribunale dal vescovo ed aveva confessato. Il presule allora lo aveva rimosso dall’incarico, ma Don Simone, tornato a Cingoli, aveva radunato trentasette armati, quasi tutti suoi parenti, con cui era penetrato nel monastero di San Benedetto. La zona di Castelplanio, Poggio S. Marcello e Montecarotto apparteneva in parte al vescovo di Jesi, che ricorse al braccio del Comune. Don Simone venne ferito al volto; ci furono solo feriti che legati, spogliati, e malmenati raggiunsero Jesi per l’incarcerazione. Per farli confessare si ricorse alla privazione di cibo e alla tortura con la corda, prova dell’estrema e gratuita violenza dei tempi. I documenti attestano che il processo venne ribaltato, con esito favorevole per Jesi. Ha chiuso la serata la coppia di studiosi di storia locale Emanuele Ramini e Francesco Formiconi, autori della guida turistica Visitare, conoscere, vivere Jesi e la Vallesina.

Da sinistra a destra l’ing. Francesco Formiconi, il dott. Emanuele Ramini, la prof.ssa Maria Cristina Zanotti e il dott. Gianni Barchi

Il primo, spiegato che il volume è organizzato per itinerari, ha letto un passo dedicato ai misteriosi capitelli con animali fantastici e simbolici dell’abbazia di S. Urbano, una delle trenta – pare – situate lungo il corso dell’Esino e luogo, secondo alcuni, di segrete cerimonie di guarigione e di riti effettuati da studiosi dell’occultismo, anche stranieri. L’ingegner Formiconi ha terminato la serata approfondendo le informazioni sull’abbazia di S. Urbano, costruita ad Apiro attorno all’anno mille e particolarmente nota in Svizzera per i suoi fasci di luce che periodicamente colpiscono particolari punti dell’interno. Lo studioso poi ha fatto conoscere la figura di S. Romualdo, terzo compatrono di Jesi, un monaco ravennate creatore dell’ordine Camaldolese e fondatore delle abbazie di S. Elena, di S. Salvatore in Valdicastro e della città di Serra San Quirico. Nato verso il 950, venne venerato già da vivo e fu così austero e intransigente da venir spesso cacciato. Un braccio del Santo, ritrovato dallo stesso relatore, è custodito nel duomo di Jesi.

A sinistra il braccio di S. Romualdo; seguono immagini dell’abbazia di S. Urbano in Apiro

Le reliquie di S. Romualdo nel 1480 vennero infatti trafugate da due monaci ravennati dall’abbazia di Valdicastro, ma i due ladri furono smascherati mentre si trovavano in una locanda. Il sacco che conteneva i sacri resti, lasciato in una stanza, emise una luce fortissima, tanto che i presenti pensarono ad un incendio. Gli jesini costruirono poi nel posto del miracolo una chiesetta ancora riconoscibile nei pressi di Porta Garibaldi. I fabrianesi però pretesero il corpo del Santo. Stava per scoppiare una guerra, quando funzionari dello Stato Pontificio stabilirono che appunto, il braccio rimanesse a Jesi e il resto del corpo tornasse a Fabriano. Sono davvero tanti e interessanti gli spunti, lasciati dal convegno, che spingono ancora di più ad amare e a voler scoprire il nostro territorio.

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