Il paese delle case che parlano

Nel cuore del Parco Nazionale del Pollino, nel nord della Calabria, troviamo un piccolo centro di quasi novecento anime davvero suggestivo e fiabesco, abbarbicato su rocce boscose e maestose. Si tratta di Civita, particolare sotto diversi punti di vista, tanto da aggiudicarsi la Bandiera arancione e da far parte dell’associazione dei “Borghi più belli d’Italia“. Nonostante sia circondato da canaloni, calanchi ed orridi, arrivarvi è comodo, perchè l’autostrada conduce a cinque minuti dal centro abitato. Le foto scattate in fretta e furia non potranno mai rendere le emozioni provate durante la forzatamente breve visita a quei luoghi, che sono inclusi nel Parco Old Calabria.

La via d’ingresso al paese

Il nome potrebbe derivare dall’albanese cifti (=coppia, con riferimento al fatto che i quartieri principali sono due) o, più verosimilmente, data la morfologia del territorio, da qifti (= aquila, dalla sua posizione simile a quella di un nido del rapace, atta a nascondere il centro dagli assalti degli invasori). Nel 1456 un terremoto aveva distrutto il preesistente centro chiamato Castrum Sancti Salvatoris, abitato da genti di Cassano e della costa jonica. Quello attuale venne fondato verso il 1481 da una comunità di profughi provenienti dal sud dell’Albania, da cui erano fuggiti sotto l’attacco dell’impero turco, guidati dal nobile Giorgio Paleologo Assan, primo signore della città.

Nel 1468 era infatti morto il loro eroe nazionale, il condottiero Giorgio Castriota, soprannominato dal sultano Murad II “Skanderbeg“, ossia “nuovo principe Alessandro”. Dopo aver unito i principati d’Albania, con un manipolo di partigiani ed una tecnica che ricorda la guerriglia il patriota era riuscito a frenare per venticinque anni l’avanzata dei turchi ottomani. Nei pressi della piazza principale di Civita non potevano quindi mancare omaggi all’eroe, come questa testa bronzea….

o un murales vagamente naif. Tutti i cartelli e le insegne in giro per il paese sono scritti anche in albanese.

I comuni italiani di origine albanese sono 49 e si trovano in Abruzzo, Basilicata, Campania, Molise, Puglia, Sicilia, ma soprattutto (ben venticinque) in Calabria, in provincia di Cosenza, con minori attestazioni in provincia di Catanzaro e Crotone.

I centri che costituiscono l’Arberia, ossia le aree geografiche dell’Italia meridionale di minoranza etnico – linguistica albanese

Come primo obbiettivo della visita mi sono fiondata alla caccia delle cosidette case “Kodra“, le tipiche abitazioni contadine antropomorfe costruite tra il 1600 e il 1700. Avventuratami su per le rughe, – i vicoli stretti del centro storico che con andamento circolare raggiungono piazzette con panorami e scorci fino allo Jonio – ecco le prime case “Kodra”, apparse su riviste di tutto il mondo. Esse si legano alle esigenze primarie dell’uomo:

  • fuoco
  • comunicazioni
  • riserve alimentari.

La facciata principale riproduce un volto umano, in cui gli occhi sono rappresentati da due piccole finestre simmetriche, il naso da una canna fumaria e la bocca da un portone. Il tetto fa da “cappello”. Le finestre poste vicino al camino facilitavano il deflusso del fumo, che nelle giornate ventose tornava indietro invadendo la stanza. La porta – bocca in realtà conduceva alla cantina con le provviste. La vita quotidiana invece si svolgeva al primo piano ed aveva un accesso differente. Non è stato facilissimo trovare delle case “Kodra”. Ne rimangono sei, sono abitazioni private e per la maggior parte disabitate. Ho dovuto farci l’occhio, perchè sono molto piccole, un po’ nascoste e non sempre hanno il “naso” o la bocca è delle stesse dimensioni. Il nome deriva dal pittore postcubista italo – albanese Ibrahim Kodra (1918 – 2006), attivo anche in Italia, dove frequentava l’Accademia di Belle Arti di Brera, a Milano. In effetti, come notato dalla sociologa Stefania Emmanuele, che per prima nel 2005 individuò quelle curiose costruzioni, le sue opere le ricordano molto.

Litografia “Senza titolo 5” di Ibrahim Kodra , anno 1973

Non so che avrei fatto per poter entrare in una di quelle case strane, per proteggere le quali non ci sono ancora strumenti…. In alcuni punti del centro storico ho constatato una triste situazione di abbandono. Esisteva un piccolo museo a loro dedicato, ma l’ho trovato chiuso. Peccato. Per fortuna, però, almeno il conduttore televisivo Giorgio Mastrota, il cui padre è originario di Civita, ha comprato una delle case “Kodra” più famose, attualmente dall’aspetto di un pugile che ha perso un incontro sul ring, con labbra e denti spaccati…. Speriamo che la restauri presto….

Sul perchè queste case assomiglino tanto a volti umani, un anziano abitante del borgo rispose che

Prima le case si costruivano con la terra e nella terra ci sono le ossa degli uomini.

Un altro aspetto particolare di Civita sono i comignoli storici delle case, con i quali i mastri muratori si sono davvero sbizzarriti. Vennero costruiti tra Seicento e inizio Novecento e sono una cinquantina, simili a piccole torri merlate. Talora, come nella foto sotto, in secondo piano, recano una maschera apotropaica o un volto corrucciato, in modo da tenere lontani gli spiriti maligni.

Scrive la scrittrice e storica Carmen Pellegrino, dedita alla memoria dei borghi abbandonati:

Dovevano inoltre, disperdere più in alto possibile i racconti intimi della famiglia, quelli fatti a sera presso il fuoco del camino, perchè non ne venissero a conoscenza in paese.

Civita è posta all’interno della riserva naturale “Gole del Raganello” e quindi, prima che faccia buio, non si può perdere una visita al Ponte del Diavolo, raggiungibile a piedi dalla piazza centrale in trenta minuti, scendendo oltre 600 gradini. Sempre per motivi di tempo ci siamo affidati ad un efficientissimo servizio di navetta costituito da una jeep dell’esercito guidata con nonchalance da un giovane autista in un percorso piuttosto adrenalinico. Per muoversi tra i vicoli stretti del paese e poi in una discesa a strapiombo con almeno quarantacinque gradi di pendenza, avrà conseguito tutto l’alfabeto delle possibili patenti….. Eccovi pochi secondi dell’esperienza….

Una volta arrivati a destinazione, la sensazione è quella di sentirsi annullati di fronte alla selvaggia e intatta maestà delle pareti rocciose che superano anche gli 800 metri e formano splendide gole ampie in media sei metri, le più lunghe d’Italia… Orrido e Sublime fusi insieme…

Avventurarsi sul Ponte del Diavolo richiede assenza di vertigini… anche perchè poi è inevitabile buttare uno sguardo in basso verso il canyon, uno dei più spettacolari della nostra penisola.

La struttura a schiena d’asino si innalza ad 80 metri d’altezza sul torrente Raganello ed era un’antica via di comunicazione tra Oriente ed Occidente.

Le sue origini si perdono nella nebbia dei tempi. Di sicuro era attestato in epoca medievale. Il nome pare derivato dall’incredulità popolare di fronte ad un’opera che sembrava realizzabile solo dal demonio. Secondo la leggenda un proprietario terriero della zona aveva chiesto al diavolo di costruire qui un ponte. In cambio avrebbe ottenuto l’anima del primo essere vivente che lo avesse attraversato. Dopo aver ottemperato in una notte di tempesta al volere dell’uomo, il demonio si mise in attesa di uno sventurato che passase per di là, ma rimase beffato perchè la prima a passare fu una pecora. Pieno di rabbia per l’accaduto, il diavolo cercò di distruggere la propria opera ma non vi riuscì perchè aveva creato un capolavoro e fu lui invece a precipitare nella gola.

L’antico ponte romanico rinascimentale è crollato il 25 marzo 1998. Nella foto sottostante tutto lo sgomento delle pecore di fronte allo strapiombo improvviso…

In qualche modo, se non si prendono le giuste precauzioni, il demonio si prende davvero delle soddisfazioni. Il 20 agosto del 2018, mentre risalivano il canyon, dieci turisti persero la vita per una piena improvvisa. Secondo l’accusa non fu rispettata l’allerta meteo gialla diramata dalla Protezione civile regionale. Vedremo come andrà a finire. Nel frattempo i turisti sono tornati ad immergersi nelle acque del torrente. L’amministrazione comunale pensa giustamente ad un progetto di valorizzazione di tutti i percorsi sentieristici, della storia archeologica del posto e della cultura della minoranza etnica arbereshe. Esiste dal 1989 un bel museo a riguardo, realizzato e gestito dal Circolo di Cultura “Gennaro Placco”, che tra le tante attività si occupa della pubblicazione trimestrale del periodico italo-albanese “Katundi Yne” (Paese nostro), rivista di tutta l’Arberia.

Al pianoterra, nella Sala etnografica dedicata all’avvocato Baffa sono esposte le donazioni di privati che hanno recuperato oggetti di vita quotidiana e di uso domestico risalenti alla fine dell’Ottocento – inizi del Novecento. Provengono da tante parti del mondo, come l’India, la Cina, il Tibet, il Nepal, l’Afghanistan e l’Africa. A queste ultime due zone geografiche appartengono delle sedie per anziani che fanno comprendere la considerazione e il valore attribuito a chi ha tanti anni di esperienza di vita sulle spalle.

Andiamo ora al primo piano per il Museo Etnico Arberesh, che si articola in quattro sale…

Ecco nelle vetrine alcuni dei coloratissimi vestiti albanesi…. Quelli da sposa possono valere anche più di diecimila euro, in quanto di raso e sete naturali dai colori vivacissimi intessuti con fili d’oro e ricchi di galloni e merletti fatti a mano. Ogni comunità ha il suo abito da sposa, in quanto gli albanesi giunsero in Calabria con diverse migrazioni: se ne contano in tutto nove, e l’ultima è ancora in corso.

I sarti in grado di realizzare tali abiti sono sempre di meno, per cui si pensa di organizzare laboratori per far apprendere quest’arte alle nuove generazioni. Dicono che per la vestizione di una sposa arbereshe ci vogliano circa quattro ore. Qualcosa di questo cerimoniale si intuisce anche dall’opera prima della regista piemontese Francesca Olivieri, il film “Arberia“, uscito nel 2019 e premiato dal pubblico al Dea Open Air International Film Festival di Tirana. In particolare dal lungometraggio si deduce che dovrebbe essere l’acconciatura della sposa a richiedere parecchio tempo, in quanto le ciocche di capelli vengono avvolte in un modo particolare e poi fermate con tanti nastrini dai colori vivaci.

Si tratta del primissimo film in lingua arbereshe della storia ed è ispirato alla vicende realmente vissute da alcune donne della famiglia della regista.

La protagonista Aida, interpretata dalla calabrese Caterina Misasi, nota già da diverse fiction, riscopre e si riappropria delle proprie origini con la complicità della nipote Lucia, che a differenza di lei è orgogliosa delle proprie radici.

Ma torniamo al museo… Anche le Barbie qui indossano i vestiti delle feste…

…. guadagnandoci in fascino ed interesse, tra icone e pannelli informativi che spiegano ad esempio il concetto di gjitonìa, termine albanese di origine greca corrispondente alla porzione più piccola della struttura urbanistica. Consiste in una piazzetta circondata da edifici e su cui convergono vicoli; semplificando potremmo tradurlo con “spazio comune di vicinato”, ma in realtà la parola contiene in sè anche il concetto di un forte senso di solidarietà tra famiglie vicine, in quanto costituisce il nucleo fondamentale dell’organizzazione sociale. Insieme ai vicini si ammazzavano i maiali, si sgranavano le pannocchie, si preparavano le collane di peperoni, si ricamava e si filava la lana, si chiacchierava dal galti, il ballatoio davanti alla porta di casa… Si intessevano così rapporti più stretti di quelli con certi parenti ….

Tra gli oggetti esposti alcuni potrebbero essere commercializzati come souvenir civitesi…

Alcuni filmati mostrano la bellezza della natura circostante, ammirabile anche dai balconi del museo; altri video presentano riti e danze popolari albanesi come le Vallje, spettacolari e grandiose, che si svolgono il martedì dopo Pasqua. In questa occasione migliaia di turisti vengono ad ammirare uomini e donne che, con i vestiti di gala della tradizione, tenendosi a catena con fazzoletti colorati, formano cerchi concentrici e si snodano per le vie del paese convergendo nella piazza centrale, dove si commemorano le vittorie del condottiero Skanderbeg.

Numerosi gli oggetti della civiltà contadina….

e foto varie….

Civita è meta anche di turismo religioso per i riti della liturgia greco-bizantina. Sono riuscita a visitare la bella chiesa di Santa Maria Assunta, costruita alla metà del XVII secolo.

All’interno alcuni altari sono in stile barocco, altri in stile rinascimentale. Prima degli anni Novanta del secolo scorso la chiesa è stata adattata al rito greco – bizantino e questo è particolarmente evidente dall’iconostasi centrale in legno con dipinte le dodici feste dell’anno liturgico e dal fatto che ai santi sono state sostituite delle icone.

Sarebbe interessante tornare per assistere ai riti legati alla Pasqua o ai matrimoni bizantini – ortodossi, con lo scambio di corone sulla testa degli sposi da parte del celebrante e dei testimoni, un atto che sancisce la parità tra i coniugi, i quali durante la celebrazione dovranno per tre volte fare un giro all’interno della chiesa.

Queste ed altre in via di potenziamento sono le attrattive di Civita, che dista un quarto d’ora dallo Jonio ed altrettanto da passeggiate ecologiche a duemila metri di altezza. La vocazione per l’accoglienza e l’ospitalità è spiccata, anche se lotta, come molti comuni calabresi, contro lo spopolamento. Basti pensare che in questo piccolo centro sono presenti ben venticinque bed and breakfast gestiti da donne; sei i ristoranti sempre aperti, con una cucina che unisce i piatti tradizionali albanesi alla saporita cucina calabrese. Non mancano i prodotti tipici, come quelli derivati dalla lavorazione dei piretto, un agrume noto anche come limon-cedro. Tanti sono dunque i motivi per tornare a Civita più di una volta, anche per godere dell’aria pulita, del paesaggio e di camminate nel silenzio che inducono alla contemplazione e alla pace.

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